Data pubblicazione: Nov 08, 2017 4:34:43 PM
La Cantatrice Chauve è la prima opera teatrale di Eugene Ionesco del 1950. Definita dallo stesso autore “anti-commedia”, essa è uno dei primi esempi di teatro dell’assurdo. L’autore si ispirò ad un manuale di conversazione inglese accorgendosi della banalità delle frasi che vi erano contenute. I luoghi comuni sono i protagonisti della pièce. I personaggi sono calati in una dimensione metafisica e la messa in scena è perciò ridotta alla più semplice espressione.
Gli Smith e i Martin si ritrovano in un comune salotto, nei dintorni di Londra. Il tempo scorre come vuole, ha lo spirito di contraddizione. Avanti, indietro, in anticipo e in ritardo.
Lo spettatore si trova davanti a uno spettacolo fuori dagli schemi, dove non sembra esserci un filo da seguire, ma piuttosto un flusso di parole assurde e movimenti sconnessi dalla logica, dove il linguaggio è snaturato della sua funzione narrativa a favore di una sequenzialità apparentemente causale di azioni ed eventi calati in un contesto di nonsense.
È un mondo incredibile, dove si mangia minestra, yogurt, patate al lardo e insalata con anice stellato salvo poi sgridare gli ospiti del fatto di non aver mangiato nulla; dove i funerali si fanno quando le persone non sono ancora decedute e dove tutti i commessi viaggiatori si chiamano Bobby Watson. Capita di essere marito e moglie, e di non riconoscersi neanche quando si è faccia a faccia. Succede che le cameriere si fingano detective con vasi da notte che raccontano di policandri che brillavano nei boschi. Quando suona il campanello e si va ad aprire non c’è mai nessuno alla porta, ma solo per le prime tre volte. Alla quarta volta si trova qualcuno, ma non conta. I pompieri vanno nelle case in cerca di fuochi di paglia e bruciori di stomaco da spegnere e raccontano aneddoti di agnelli che mangiano briciole di vetro e di galli che si travestono da cani, senza successo. Inevitabilmente, poi, si entra in conflitto e il tutto non può far altro che degenerare nel delirio, finanche la parola stessa si sgretola in lettere che non vanno né di qua né di là.
E la cantatrice calva? Non sappiamo chi sia, ma di certo sappiamo che... ci parla di noi: la nostra incapacità di comunicare, la frustrazione derivante dal non essere capiti, il desiderio di far prevalere la nostra personale opinione su quella degli altri.
L’oscurità del salotto degli Smith diventa una prigione dalla quale non c’è uscita, dove i personaggi sono costretti a confrontarsi all’infinito, reiterando le azioni in un vortice di frustrazione e rabbia crescente.